Quella colt sempre carica
La drammatica morte di Andrea Papi in Trentino, ad opera di un orso, desta lo sgomento e il grande cordoglio che la perdita di una giovane vita porta con sé: il dolore, lungi dall’ostacolare, esige la giustizia che può solo derivare dall’analisi delle situazioni che l’hanno determinata. È quindi necessario impedire che questa morte divenga il lasciapassare per le decisioni della Regione Trentino Alto Adige, presidente Maurizio Fugatti, che, con la rapidità dell’azione che precede il pensiero, hanno decretato la condanna capitale all’orso assassino (in realtà la diciassettenne orsa JJ4) e a due suoi conspecifici “problematici”, preannunciando altresì l’eliminazione di altri 50, ma forse anche 60, ma, secondo l’ultima conferenza, meglio 70 “esemplari”.
La condanna (che sta mobilitando le forti proteste delle associazioni animaliste ed è al momento sospesa dal TAR, su esposto della LAV) è stata comminata con una rapidità che può derivare solo dalla convinzione che la scia di paura e di emotività sollevata dall’episodio possa travolgere e cancellare quel genere di interventi critici, vale a dire ragionati, che già nel passato avevano ostacolato analoghe decisioni.
Per altro sono gli stessi genitori di Andrea, pur nel mezzo della dolorosissima tempesta emotiva che li sta travolgendo, a esigere verità e ad opporsi allo scaricabarile sull’animale, chiedendo a gran voce giustizia, vale a dire assunzione di responsabilità da parte di chi responsabile è.
La logica di fondo di quanto sta succedendo è quella ben praticata secondo cui ogni e qualsivoglia animale deve essere considerato al servizio dei desiderata di noi umani, autorizzati a disfarcene nel momento stesso in cui non risultano più rispondenti alle nostre aspettative. Quando questo succede, la soluzione è quella che dilagava nei vecchi film western: quando il forestiero non gradito infastidiva, dalla fondina si estraeva la colt, sempre carica perché in questo mondo malvagio è bene non distrarsi mai, e si sparava, eliminando il problema insieme al suo portatore: il diritto era ed è quello del più forte, universalmente riconosciuto in territori dove le idee sono forse poche, ma ci si è profondamente affezionati.
Per capire cosa ci facciano gli orsi nei boschi trentini, va ricordato che la loro presenza data dal 1999, quando il primo di loro ci fu importato dalla Slovenia, in omaggio al progetto LIFE URSUS. Masun (questo il suo nome) fu seguito da tanti altri, come lui anestetizzati, catturati, trasportati a vivacizzare e colorire con la propria grande mole il paesaggio montano per altro già universalmente considerato incantevole: progetto antropocentrico che ha visto splendidi animali usati come oggetti di “ripopolamento”, da spostare in cambio di generosi contributi economici dell’unione europea, nella evidente convinzione che avrebbero abdicato ai loro istinti riproduttivi, quelli che hanno oggi portato il loro numero a un centinaio, e alle loro caratteristiche di specie, comportandosi come ospiti garbati, attenti a non infastidire quegli umani che tanto gioiosamente avevano decretato la loro immigrazione obbligatoria.
Nel corso degli anni a seguire, alcuni casi sono saliti alla ribalta della cronaca: ci fu l’orso Bruno, deliberatamente ucciso (era il 2006), perché aveva avuto l’inaccettabile idea di sconfinare in Baviera dove si era reso responsabile dell’uccisione di capi di bestiame, togliendo così il monopolio agli umani, gelosissimi della loro esclusiva. Nel 2014 fu Daniza, che, per avere cercato, come ogni buona madre umana o nonumana, di difendere i suoi cuccioli, fu destinata ad una cattura, eseguita con tanta poca perizia da causarne la morte. Di altri orsi si è poi deciso l’imprigionamento a seguito di minacce ad umani, benché mai davvero provate.
Nel frattempo si era già prudentemente smesso di attribuire loro nomi di battesimo, facilmente memorizzabili e capaci di risvegliarne, insieme al ricordo, anche le vicende dei grandi soprusi patiti, preferendo designarli con sigle neutre e burocratiche (M62, MJ5…): il nome designa un individuo, una sigla soltanto un oggetto. Scelta rivelatasi indovinata visto l’evolversi delle situazioni, che sono andate prendendo forma ogni qual volta un orso ha seguito le proprie inclinazioni e i propri istinti, anziché adattarsi diligentemente alla tipologia di orso Yoghy, gigante buono e inoffensivo interessato al massimo ai cestini da pic nic dei turisti nel fantastico parco di Jellystone: questo era forse nelle previsioni delle autorità trentine. F43 è stata uccisa durante una cattura ancora una volta eseguita malamente; KJ2 abbattuto perché colpevole di avere attaccato e lievemente ferito un settantenne e non fa niente se il cane di quest’ultimo lo aveva probabilmente spaventato; il giovane maschio M57 spostato in un parco zoo in Ungheria…
La tragica morte del giovane runner è bene rivisitata dagli esperti in un quadro di imperdonabile ignoranza e superficialità delle autorità: Walter Ferrazza, presidente del Parco Adamello Brenta, denuncia che il progetto Life Ursus esigeva, ma non ha avuto, investimenti in cultura, informazione e comunicazione; le autorità si sono invece limitate ad opporre gli orsi alle persone, sostenendo il distacco della nostra specie dal resto del mondo animale, atteggiamento tanto ingiusto quanto perdente. Lo zoologo Bruno Cignini richiama l’indole solitaria e schiva degli orsi, il cui ultimo desiderio sarebbe andare alla ricerca di contatti con umani: indole talmente conosciuta che orso è per antonomasia la persona che convintamente rifugge la compagnia dei propri simili, prediligendovi una orgogliosa solitudine.
Purtroppo all’approccio culturale e olistico degli studiosi continua ad opporsi quello del presidente Fugatti, che, tolti i freni inibitori all’espressione della sua insofferenza nei confronti del mondo animale, afferma “Non mi preoccupa il benessere degli animali e come verranno catturati. E non mi preoccupa neanche se i nostri organi dovessero sbagliare animale nelle azioni che fanno per identificare il soggetto”; “Abbattiamo questi tre qua” che poi ce ne saranno altri di cui gli animalisti affondati nei salotti televisivi potranno occuparsi. Insomma se ne frega proprio della vita e della morte degli animali, e rilascia dichiarazioni che risultano pleonastiche alla luce dei suoi trascorsi: era il 2011 quando ammise di non riuscire proprio a capire la ragione dell’intervento di quei pedanti dei NAS, arrivati a rovinare il banchetto a base di carne d’orso (sloveno, se può interessare) organizzato per una festa dei leghisti, i quali, frustrati nell’appagamento dei loro appetiti (alimentari) più intensi, minacciarono (ma non attuarono) niente meno che l’uscita dal governo.
La condanna a morte di JJ4, che a detta degli esperti non sarebbe risolutiva, e a detta di chi aborre ogni sopruso appare ingiusta, ha il sapore di una reazione punitiva, che implicitamente riconosce all’animale, dietro l’uccisione di un uomo, la capacità di intendere e volere e quindi la responsabilità dei propri atti, da giudicare codice penale alla mano, un codice penale che contempla la pena di morte. Una riedizione di quanto avveniva nel Medio Evo quando gli animali, nel caso in cui avessero provocato la morte di qualcuno, venivano portati nei tribunali, sul banco degli imputati, esattamente come le persone: così maiali, cavalli, asini ed altri ancora subivano condanne crudelissime, addirittura precedute da supplizi, esattamente come i loro coimputati umani. Alla fine bisognerà pur decidere: nella nostra testa e nei nostri comportamenti, gli animali sono quegli esseri a noi assoggettabili perché inferiori, incapaci di pensiero, pericolosi e ipodotati; o invece esseri superiori dotati di etica, di morale, in grado di valutare la gravità delle proprie azioni e quindi conseguentemente punibili? Al momento la confusione sembra regnare e dirigere un comodo ondivagare tra opposte convinzioni, a secondo della convenienza.
Forse lo stesso quesito andrebbe posto a proposito dei cacciatori, i quali nei luoghi della natura provocano in ogni stagione decine di vittime umane – a fronte della drammatica morte di Andrea Papi ad opera di un orso, unica in 24 anni, 354 sono le vittime umane dei cacciatori dal 2007 ad oggi; quelle nonumane infinite – senza che neppure un sussulto scuota le giunte regionali, che si comportano come davanti all’imponderabile da accettare, così come si fa con i fenomeni naturali, valanghe, inondazioni, smottamenti e affini. In fondo i cacciatori stessi dovrebbero sentirsi offesi nell’essere equiparati a disgrazie naturali, tanto che nel loro caso non si invocano provvedimenti seri: basterebbe solo un divieto di caccia. Pensiero stupendo, ma irricevibile dalla propensione macha di una minoranza di persone molto piccola, ma agguerrita e potente; incompatibile poi con gli interessi economici di tante lobby amiche.
L’atteggiamento nei confronti degli orsi è per altro la fotocopia di quello che definisce il nostro rapporto con tante altre specie.
Si pensi alle nutrie: importate dal Sud America per fare pellicce, divenute inutili quando la moda non le prese più in considerazione, rilasciate in natura come animali protetti. Quando si prese atto che potevano recare problemi scavando e rodendo sulle rive dei corsi d’acqua, la soluzione fu quella di promulgare una legge che da un giorno all’altro (era l’11 agosto 2014) le trasformò da specie protetta a specie nociva: da quel momento lo sterminio con ogni mezzo è non solo permesso, ma incentivato con premi in denaro per ogni cadavere presentato dai sempre solertissimi cacciatori, affiancati da nuovi volontari, giustizieri del giorno e della notte dell’animaletto designato dalla legge, con una acrobatica virata mentale a 180 gradi, pericoloso devastatore del territorio. Il tutto in sprezzo totale delle diverse strategie offerte dagli esperti.
E si può parlare dei cinghiali, costretti a entrare nelle città perché privati dei loro luoghi di vita e attratti da una gestione delle immondizie che dovrebbe solo far vergognare le amministrazioni: unica soluzione prodotta, la loro uccisione.
Si potrebbe continuare con il castorino euroasiatico, appena ricomparso sul nostro territorio, ma per il quale il ministro dell’ambiente si è già prontamente mobilitato invocando un piano urgente di rimozione: rimozione? “Chiamare le cose con il loro nome è il primo atto rivoluzionario” diceva Rosa Luxemburg. Allora forse meglio sterminio.
E via dicendo.
Insomma la vicenda degli orsi in Trentino porta prepotentemente alla ribalta il nostro rapporto con gli altri animali, rapporto in cui esplode tutto il nostro antropocentrismo: anche quando si tratta di animali che ci sono cari perché custodiscono la fantasia di un’amicizia tra noi e loro sognata nel nostro immaginario infantile, ma sempre boicottata nel nostro delirio adulto di onnipotenza, lo sono solo fino al punto in cui non ci arrecano disturbo. Se lo fanno, allora l’eliminazione è la nostra risposta.
Dal momento che gli animali nonumani uccisi ogni anno per alimentazione, caccia, pesca, vivisezione, quelli imprigionati, modificati, estinti si contano in centinaia di miliardi, risulta per altro stupefacente che la vita di una o pochi orsi riesca a mobilitare l’enorme attenzione in atto. Se ci si interroga su questo apparente paradosso, la risposta si trova forse nel valore simbolico di JJ4 e degli altri: sono lì a parlare della natura, dei suoi ritmi, della vita che vi pulsa dentro, scandita dal tempo e dalle stagioni. Difficile tifare per l’altra parte, quella umana, marcata da strabordante arroganza nello spadroneggiarli quei ritmi.
Nella difesa della grande mole di JJ4 pulsa in questo momento almeno un briciolo della nostra capacità di restare umani. “Mi rivolto, dunque siamo” diceva Camus: facciamolo contro il sopruso, nella difesa di tutti gli offesi, gli umiliati, i traditi che muoiono di indifferenza e di ingiustizia.
di Annamaria Manzoni
fonte comune-info.net